I foreign fighters: una lenta rinascita?

Lo Stato islamico, (Isis o Daesh) è stato territorialmente “sconfitto” nel marzo del 2019. La campagna contro l’Isis è stata uno dei numerosi capitoli nella storia della “Guerra al terrore” iniziata dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. La sua sconfitta territoriale, tuttavia, non ne ha determinato la totale scomparsa. Al contrario, questo gruppo terroristico di stampo jihadista continua a rappresentare una minaccia a livello regionale e globale. Ad esempio, il gruppo jihadista è tornato ad essere particolarmente attivo in Afghanistan a seguito del ritorno al potere dei talebani.

Dopo la riconquista di Kabul nel settembre 2021 è, infatti, esplosa una rivalità tra questi ultimi e l’Isis-k (“Provincia del Khorasan dello Stato islamico”), un gruppo che si potrebbe definire come una costola di Daesh operante in Afghanistan. Pur presentando numerose analogie dal puto di vista ideologico, rispetto ai talebani l’Isis agisce come una organizzazione ancora più estremista, più radicale e con una vocazione globale. I talebani puntano invece al controllo di un territorio geograficamente limitato alla realtà afghana e pakistana.

Combattenti dell’Isis catturati dalle forze di sicurezza afghane, Agosto 2018. Fonte: Wikimedia Commons.

L’Isis-k ha approfittato dell’instabilità politica legata al ritiro delle truppe statunitensi – presenti in Afghanistan dal 2001 al 2021 – mettendo in discussione l’autorità dei talebani attraverso una serie di attentati che rappresentano un pericolo per la sicurezza del paese.

L’attività dell’Isis tende ad intrecciarsi con un fenomeno particolarmente complesso: quello dei “combattenti stranieri”, o foreign fighters. Si tratta di soggetti che spesso possiedono la cittadinanza europea, o che risiedono per lo più in Europa, ma che, per varie ragioni, si sono radicalizzati e hanno deciso di unirsi alla causa di gruppi jihadisti come l’Isis. Dal punto di vista storico la figura del foreign fighters si è affermata in modo considerevole negli anni Ottanta del secolo scorso in Afghanistan, come strumento di lotta contro l’invasione dell’Unione Sovietica. Il fenomeno si è ulteriormente sviluppato negli anni Novanta durante la guerra in Bosnia-Erzegovina dove numerosi guerriglieri, soprattutto arabi e turchi, si sono uniti alla lotta per difendere i “fratelli musulmani”.

Attualmente, quando si parla di foreign fighters ci si riferisce principalmente a individui che decidono di abbracciare la causa jihadista a seguito di un processo di reclutamento, attività portata avanti tramite l’uso dei social-network o in luoghi fisici di aggregazione come moschee o carceri: la maggior parte sono uomini di età inferiore ai 30 anni.  Un altro dato riguarda l’origine dei combattenti: molti infatti provengono da ambienti poveri e sono posti ai margini della società ed è dunque anche per una questione di riscatto sociale – una tra svariate altre ragioni –  che decidono di unirsi alla causa jihadista.

Si è tornati a parlare dei foreign fighters dopo l’inizio della guerra in Ucraina, che ha registrato la partecipazione di molti combattenti provenienti da più di 50 paesi, a sostegno sia delle forze ucraine che di quelle russe. Con l’allargamento della guerra a tutto il territorio ucraino, cresce il rischio che anche questo fenomeno possa espandersi ed evolvere in una versione più violenta, lasciando in “eredità” combattenti stranieri sempre più radicalizzati che potrebbero poi divenire un pericolo anche per il paese di origine. Molti foreign fighters della regione del Donbass, per esempio, sono originari della Serbia. In questo contesto nuova linfa al fenomeno del reclutamento di combattenti stranieri potrebbe provenire proprio dai Balcani occidentali, in particolare da Serbia, Montenegro, Kosovo, Albania, Macedonia del Nord e Bosnia- Erzegovina.

I Balcani. Fonte: Wikimedia Commons.

Considerando la relazione fra i foreign fighters e il fenomeno jihadista più in generale si può notare che alcuni foreign fighters sono rientrati spontaneamente nel proprio paese di origine o sono stati rimpatriati, mentre altri sono rimasti in Siria e Iraq. È a quest’ultimi che attualmente si guarda con maggiore preoccupazione: le seconde generazioni, infatti, nate e cresciute in questi territori, potrebbero in futuro rappresentare una minaccia per la sicurezza nazionale e internazionale.

Per quanto riguarda i Balcani, la diffusione dell’estremismo islamico e della figura del foreign fighter ha riadici storiche e socioculturali. Fu con la guerra in ex-Jugoslavia che arrivarono in Bosnia i primi guerriglieri stranieri, con l’obiettivo di sostenere la comunità musulmana bosniaca contro i serbi e i croati. A livello sociale, invece, l’attività di reclutamento dei giovani combattenti sfrutta da sempre il disagio economico e l’emarginazione sociale soprattutto in alcune fasce delle popolazione residente nelle zone rurali e più povere della Bosnia e del Kosovo. Con l’avvento dello Stato islamico, è partito proprio da questi due paesi il maggior numero di foreign fighters verso Siria e Iraq. Con la sconfitta territoriale del “Califfato” del 2019, il rimpatrio dei combattenti ha finito per rappresentare un fattore di criticità per la sicurezza dei diversi paesi di origine.

È inoltre emerso nella regione anche il fenomeno dei “lupi solitari”, soggetti che, pur non essendo direttamente legati all’Isis, hanno deciso di adottarne la dottrina, agendo però singolarmente e in maniera relativamente autonoma commettendo attentati terroristici che hanno coinvolto anche diversi paesi europei.

Un’immagine dell’attacco terroristico di Vienna del novembre 2020 – un esempio della persistente minaccia posta dall’estremismo jihadista in Europa. L’autore dell’attentato era un albanese originario della Macedonia del Nord con doppia cittadinanza, austriaca e macedone. Fonte: Ansa.

Arginare questo fenomeno appare particolarmente complesso. Dal punto di vista giuridico non ci sono precisi strumenti legali – con l’eccezione del Kosovo – che consentano di superare l’eventuale assenza di prove più o meno schiaccianti, per poter condannare un foreign fighter. Un altro problema riguarda la scarsità dei fondi messi a disposizione per la lotta al terrorismo. Infine, manca un sistema di intelligence che sia condiviso in tutta la regione che permetta uno scambio reciproco di informazioni ed una maggiore collaborazione tra i vari paesi.

Vista l’assenza di istituzioni capaci di controllare questa problematica in modo efficace, i paesi dei Balcani occidentali figurano spesso come realtà dove è più difficile contenere tali criticità. In questo contesto si inseriscono i cosiddetti “Leoni dei Balcani”, un gruppo legato allo Stato islamico i cui membri vivono stabilmente in Germania, Austria e Svizzera.

Vi è il rischio concreto che l’Isis possa sfruttare alcuni fattori per aumentare la propria influenza nei Balcani: in primo luogo le fragilità e le divisioni interne, e in secondo luogo la posizione geografica. Trovandosi, infatti, così vicina al cuore dell’Europa, la regione potrebbe divenire il nuovo “hub logistico” del gruppo jihadista, dove poter radicalizzare nuovi adepti e riorganizzarsi. La motivazione che anima i jihadisti balcanici non è più quella originaria di liberazione dall’invasione straniera, ma di lotta contro tutti coloro che non condividono il loro credo e adottano uno stile di vita e valori che vengono classificati come “occidentali”.

Bisogna tuttavia sottolineare come negli ultimi due anni gli attacchi terroristici in Europa siano di gran lunga diminuiti. L’Isis, insomma, appare indebolito ma ha ancora dei significativi punti di forza. In questa cornice, tuttavia, i Balcani occidentali si presentano come un’area che vanta un numero di foreign fighters superiore rispetto alla media del resto d’Europa. È soprattutto questo dato a rendere la regione più esposta. Le soluzioni prospettate restano l’incarcerazione o la reintegrazione del returnee, ma entrambe non si sono rivelate finora risolutorie.

Nei Balcani occidentali, dunque, il terrorismo potrebbe quindi trasformarsi ulteriormente, sfruttando le criticità dell’area, le sue divisioni interne e la mancanza di un sistema di controllo del fenomeno del terrorismo internazionale.

Chiara Vilardo